FASTI E
USANZE D'ALTRI TEMPI
La democrazia in tavola
è rappresentata dalla disponibilità di cibo
per tutti. In occidente, almeno, questo è un diritto
per gran parte garantito. Importante, ma non basta. In altri
tempi, di cruda divisione tra aristocratici e miserabili,
i nobili a mensa tenevano in gran pregio l'apparato simbolico.
E curavano che nei desinari fosse assicurata l'allegria,
perchè il buonumore secerne buoni umori, indispensabili
alla buona digestione. Tanto che i sovrani mantenevano apposta
un buffone di corte, per dar sollazzo ai convitati. Tra
dicembre e gennaio corre un tempo di convivi. Di inviti
tra famiglie, di feste d'auguri nelle associazioni, di pranzi
domestici. Capita che i cerimonieri non siano all'altezza,
e si appaghino solo di stendere un menù. A loro vanno
ricordate le usanze d'altri tempi, ormai accessibili alla
quasi generalità delle mense. Da infinite lontananze
aristocratiche vengono tuttora deboli echi. Di secoli ba-rocchi,
di trionfi culinari, d'alterigia e di opulenza. Sulla tavola
dei secoli trascorsi s'alzano le architetture gastronomiche
cinquecentesche. Fasti del prestigio, del potere e della
ricchezza. Non sono arredi per le mense ornate, ma gonfaloni
e orifiamme di un dominio ostentato e condiviso dagli eletti.
Inimmaginabili oggi, quando l'effetto estetico residua in
tutt'altro clima sociale: di decoro borghese, di mangiatori
solitari anche in mezzo a cento altri commensali. Mònadi
del disincanto spoglio d'ogni spirito comunitario. Cibi
e bevande non mettono più in gioco simboli forti.
Allora, la scenografia patrizia voleva che gli sguardi dei
convitati si rivolgessero all'empireo delle glorie familiari,
dipinte sui soffitti dei saloni. Ora, gli occhi di ciascuno
calano sul piatto guarnito, dov'è dileguata l'indispensabile
alternanza fra cucina di festa e tavola dell'ordinario.
Il gran teatro del convivio, lungo, celebrativo, memoriale,
eroico, fastoso, ha chiuso i battenti. E così millenni
di suggestione biblica, che premiava i giusti col banchetto
eterno, di vini vecchi e di carni grasse, diventano allegorie
incomprensibili. Figurarsi chi si entusiasma per simili
portate, in questi nostri anni lipofobici, di anoressie
e di credi virtuali. L'arte culinaria per la forma
delle sue manifestazioni dipende dallo stato psicologico
della società, parola di Maestro Escoffier.
Nulla da rimpiangere per gli odiosi privilegi nobiliari.
Ma ammirazione per fastigi che richiamavano un'appartenenza.
Non è forse oggi questo il vuoto in cui precipita,
per mancata sazietà, il nostro vivere?
La morte sociale ha ghermito Venezia Serenissima da più
di due secoli (12 maggio 1797), ma va reso omaggio alla
Repubblica imperiale che celebrava le sue glorie nei banchetti.
L'Europa deve agli italiani l'arte sublime della pasticceria.
E l'Italia deve a Venezia l'apoteosi delle architetture
gastronomiche. Già dal XIV secolo importava da oriente
i grandi pani bruni di zucchero. I cuochi dogali ne cavarono
archi di trionfo, statue, orpelli. La colazione per il re
di Polonia Enrico III, nel 1547, vide ogni cosa, posate,
piatti, pane, salviette, fatta di zucchero scolpito. Insieme
a leoni su cui stavano assise Pallade e la Giustizia, San
Marco e Davide, su modelli del Sansovino. Il Serenissimo
Principe dava enorme importanza agli onori del convito.
La Zecca dello Stato custodiva l'argenteria da tavola, sparita
con Napoleone: 757 piatti tondi di portata, 180 insalatiere,
25 zuppiere, 20 vasche a rifrescatoio per deporre il vino
in ghiaccio, 12 gradi cuccume da caffè, e via enumerando.
Smorzate le bravure, altri si misurarono con architetture
di cera, di burro, di marzapane. La storia custodisce tante
messinscene d'imbandigione. Al banchetto per le nozze di
Lucrezia Borgia con Alfonso I d'Este, nel 1501, vennero
serviti 24 enormi castelli di zucchero, tanti quante le
possessioni. Nel convito del patriarca Marino Grimaldi,
in Venezia il 1542, dai pasticci troneggianti sulla tavola
uscirono, una volta tagliati, schiere d'uccelletti, creando
l'allegro scompiglio degli svolazzamenti e della cattura.
Allo sposalizio del Principe di Mantova (1581), la mensa
era dominata da quattro statue di marzapane alte 4 palmi
l'una. Le magnificenze si estendevano dalla tavola all'aperto.
Quando il Granduca Paolo di Russia, figlio di Caterina II,
e la sua sposa Maria Teodorovna, che viaggiavano sotto il
titolo di Conti del Nord, raggiunsero Venezia nel 1782,
dalle piante del giardino di Palazzo Pisani a Santo Stefano
pendevano frutti di cristallo, illuminati all'interno. Venne
poi Antonin Carême, e la quaresima dellšOttocento
coi suoi miti della tecnica, ultimi fuochi dell'excelsior,
che illuminano sinistri l'avvento dell'individualismo narcistico
imperante sulla contemporaneità. Sui suoi piatti
più vuoti che pieni. Assenze evocative, spazi parlanti,
per commensali che non si lasciano andare. Architetture
uniformi, per scontati smantellamenti celeri. Nella mestizia
dei "pranzi di lavoro", l'interesse alimentare
si trasfigura in curiosità editoriale, e la malinconia
della rinuncia vittuaria cerca consolazione nell'universo
mediatico, nell'ostensione silenziosa di pietanze golose
spiacciccate in una fotografia. Ultima trincea virtuale
della speranza gastronomica, nellšincalzare del McWorld.
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